Sulle tasse Meloni si gioca tutto. La premier ha rotto ieri l’assedio strettogli attorno da oltre due settimane sul tema dei migranti, rilanciando con la madre di tutte le riforme: quella fiscale.
Il testo approvato dal Consiglio dei ministri è soltanto una legge delega, dunque per ora ci si deve accontentare di “norme manifesto”, mentre per capire come si tradurranno nel concreto bisognerà attendere i decreti delegati dopo l’approvazione del testo quadro da parte del Parlamento. Ci vorranno due anni di tempo per completare l’opera, ma la rivoluzione annunciata da Palazzo Chigi promette di avere il respiro storico della famosa riforma Visentini del 1975.
Gli obiettivi sono quelli di ridurre le tasse, stimolare la crescita economica, sostenere famiglie, imprese e lavoratori, incentivare le assunzioni, attrarre capitali e investimenti esteri, ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, semplificare oneri e adempimenti, razionalizzare un sistema tributario divenuto insopportabile nella sua complessità e un freno allo sviluppo. Tutti intendimenti giusti, anche se non tutto convince della loro concreta realizzazione. A cominciare dalla tempistica, che appare troppo lunga in una Nazione schiacciata da una pressione fiscale insopportabile: sarebbe stato opportuno cominciare a dare qualche segnale subito. In secondo luogo restano ancora vaghe le coperture: la riforma si finanzierà in buona parte con la revisione delle detrazioni fiscali – le cosiddette tax expenditure, dietro le quali ci sono tanti interessi corporativi – che sono proliferate ormai a oltre 600 e hanno un costo di 165 miliardi di euro, ma non è ancora chiaro quali voci saranno colpite, né se si riuscirà ad evitare di togliere con la mano sinistra quello che si darà con la destra. Infine continua ad essere assente un serio e adeguato impegno sul fronte della riduzione della spesa pubblica improduttiva, mossa indispensabile se si vuole realizzare un taglio non marginale e strutturale del carico fiscale sui contribuenti.
Tutti nodi che dovranno essere sciolti al più presto. Tuttavia, è molto importante l’impegno preso dall’Esecutivo affinché la riforma non comporti maggiori oneri per le casse dello Stato: in un contesto d’inflazione alta e tassi d’interesse crescenti, infatti, non è proprio il caso di aumentare ulteriormente il nostro già mostruoso debito pubblico. I cui titoli – è bene ricordarlo – stanno in buona parte nella pancia di quelle banche sempre pronte a ballare in Borsa ad ogni stormir di crisi da qualche parte in Europa e nel mondo. È innegabile che l’impianto della riforma fiscale sia ambizioso e radicale: quello proposto è un vero e proprio cambio di paradigma che punta finalmente alla crescita e alla competitività del Paese e delle sue imprese.
Certo, bisognerà vigilare perché le parole contenute nelle norme generali approvate dal Consiglio dei ministri si traducano poi in maniera efficace per aziende e contribuenti, ma un primo passo è stato certamente fatto. E non era per nulla scontato. Di questo al Governo dovrebbero darne atto tutti. Invece accade l’opposto. È incredibile come di fronte ad una riforma che promette di ridurre il carico fiscale sui lavoratori e le loro famiglie, la sinistra e la Cgil, invece di condividere quantomeno gli obiettivi dichiarati e impegnarsi ad incalzare l’Esecutivo affinché a quanto declamato seguano i fatti, si attardino in un atteggiamento di ostilità pregiudiziale. Va bene che l’opposizione deve opporsi per contratto, ma chiedere il ritiro di una legge che punta a ridurre le tasse è autolesionismo. Anche nei confronti dei propri stessi elettori.
La ragione è che mentre da quelle parti continuano a parlare dell’opportunità d’introdurre patrimoniali più o meno mascherate e tasse un po’ ovunque (come se non ce ne fossero già abbastanza), il centrodestra mostra di voler concentrare i suoi sforzi sulla riduzione della pressione fiscale. La buona volontà – almeno quella – non manca. Meno male.

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